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Ci sono incontri fortuiti e carichi di un’intensità tale da far perdere il concetto di spazio e di tempo. Se ne contano pochi e quello con Gianluca Migliarotti è stato uno di questi per noi, sia per il fiume in piena che siamo riusciti a creare e sia per la capacità comunicativa, onesta e passionale che ha il regista di un gioiello intitolato O’ Mast. Film, documentario sulla sartoria napoletana (qui il trailer). Un dvd ricco (e unico visto il packaging contenente un campione di tessuto diverso per ogni singola confezione) di colori, di autenticità partenopea e di mani che si muovono ogni giorno da sempre su tessuti e tavoli, con una colonna sonora che fa “viaggiare” con la camera lo spettatore.
Migliarotti è riuscito a trasmettere con questo suo lavoro il sentimento della sartoria napoletana e noi non abbiamo perso tempo a incontrarlo per quattro chiacchiere davanti a un bicchiere di vino accompagnati da degli ottimi sigari.

 

Come è arrivato a O’Mast?
Sono cresciuto in una famiglia dove la sartoria, tra i maschi di famiglia, era nell’ordine naturale delle cose. Questa è una delle poche eccellenze rimaste a Napoli, la mia città natale. I fattori si sono uniti ad altri, tanti, tra i quali dare voce a chi non si sa raccontare, come i sarti napoletani e come Napoli stessa. I sarti inglesi se fanno uno sbadiglio lo reclamizzano per tutto il mondo come se avessero composto un’aria, quelli napoletani se non interpellati ancora un po’ non sai neanche che esistono. È un po’ nel DNA quello di dare per scontato ciò che è bello, tanto da maltrattarlo. Quindi ho deciso di fare un film su di loro e sulla loro arte, ma anche un film su una Napoli come la conoscono pochi. 

Di chi ha voluto parlare realmente? Di cosa?
Difficile rispondere. Tra le tante cose ho voluto parlare di uomini dignitosi e laboriosi, di uomini che silenziosamente hanno costruito delle vite attraverso sacrifici e passione. Mi affascina il legame tra queste persone semplici e la bellezza. Ho riflettuto sul rapporto tra il sarto – l’abito – il cliente  e la comprensione che questi hanno della stessa cosa. 
Ho voluto parlare di un modo di essere, lontani dalle marche e dalle appartenenze; un modo che trovo più consistente e, mi si consenta, più virile. 
Ho voluto parlare di mio padre.
Ho voluto parlare di me e del mio rapporto conflittuale con la mia città natale.

 
Napoli è la suggestiva compagna di questo racconto, cosa sta diventando come città? Come entità?
Napoli è una città piena di conflitti. È come se avesse un grandissimo talento, ma che non riuscisse ad esprimerlo a fondo e sicuramente non con continuità. 
Ma come tanti talenti è gestita male, non capita fino in fondo. Ecco, a me sembra che sia proprio la classe dirigente, la buona borghesia e la politica a non capirla e a sfruttare solo le cose più banali senza incentivare il vero talento. Vedo una nuova generazione però che grazie ai mezzi di comunicazione moderna , come internet, sta coltivando nuovi interessi e un amore diverso per la città. C’è molto da fare e nulla è impossibile. L’importante è fare, anche in silenzio, e fare bene, senza aspettarsi nulla in cambio, anche perché si sa che Napoli è una città fortemente ingrata ai suoi benefattori e ai suoi amanti. 
Napoli l’ho sempre vista come una donna, molto bella, ma con un pessimo carattere. Una donna tormentata, piena di luoghi oscuri , di quelle donne che ti fanno perdere la testa capaci di grandi passioni e di sorrisi che ti sciolgono l’anima, ma che in fin dei conti non sarà mai tua. 

Cos’è l’eleganza per lei?
Vestirsi è un linguaggio. Si può parlare in tanti modi e l’efficacia delle parole è data da diversi fattori. A volte ascolteresti un uomo incolto per ore solo per la sua capacità a sintetizzare, o a farti immaginare, o per il carisma, nonostante gli errori grammaticali etc. Lo stesso vale al contrario, come quei professori universitari che ci facevano addormentare tanta la noia dei pur ottimamente costruiti argomenti. 
L’eleganza è l’equilibrio dei diversi fattori, la proporzione in testa. Può essere più vivace o più sopita, più coltivata o innata, ma deve essere sempre vera.
Altrimenti più che vestito risulti travestito.

Cosa vuol dire vestirsi?
Ci si veste prima di tutto per se stessi; ci si ascolta, si analizzano gli umori, si riflette come davanti al menù del ristorante . Non è una pratica solamente razionale , anzi la razionalità entra in gioco nell’atto pratico, tutto il resto è un’interpretazione dell’emotività e dei desideri. 
Non è vero che l’abito non fa il monaco, solo che bisogna saper leggere i dettagli. 

Dove risiede oggi l’artigianalità
Esclusivamente nelle botteghe, come è sempre stato e sempre sarà. Botteghe che esistono e si affannano a rispondere alle riemergenti richiesti di una clientela che finalmente sembra stia uscendo dal torpore del consumismo.
Mi irrita un po’ questo trend del “fatto a mano”, “sartoriale” etc..
Tutte cialtronate che però forse possono aiutare i miei “amici” artigiani. 
Un sarto non ha bisogno di sottolineare il fatto a mano, perché si tratta di un concetto implicito, altrimenti si chiamerebbe negoziante o altro…

In un mondo di tromboni e saccenti giovanotti come si svelano gli altarini?
Dai dettagli. Come diceva Mies van de Rohe : “God  is in the details“.
A me le bugie non sono mai piaciute.

Dove è stato presentato il film e dove lo potremmo vedere e acquistare?
Il film è stato presentato con successo a New York presso la Casa Italiana Zerilli Marimo’ dell’NYU. Sala piccola, ma piena e spettatori in piedi e sulle scale. Di seguito a Londra presso la galleria The Rook& Raven, sold out anche lì. In ultimo a Hong Kong presso l’HK art center. Sala meno piena, ma un pubblico molto appassionato e caloroso. 
A tutte queste proiezioni segue sempre un q&a con me e la cosa che mi emoziona di più è ricevere domande di persone così appassionate e curiose di una cosa tanto familiare a me. 
Il DVD è distribuito solo in rete in esclusiva da The Armoury, una boutique di Hong Kong che importa tra le varie anche capi di confezione napoletana.

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Come nasce il suo cinema?

L’incontro e l’esperienza diretta creano le mie storie. Tecnicamente si chiamano documentari, ma a me sembra che i miei film vadano un po’ fuori da questa definizione, anche solo per il fatto che non si tratta di film di denuncia, ma film di ispirazione, di speranza.
Che la vita è più grande della fantasia lo hanno detto in tanti ed io mi limito a condividere, anche se la fiction mi affascina molto. Ma riuscire a scoprire, a mettere a nudo delle persone, riuscire a farle aprire, scavare nelle loro vite e nelle loro idee mi sembra quasi una necessità per me; ancor di più lo è aiutare a parlare

Quali sono i suoi lavori?
Questa domanda vuol dire che non sono nessuno!
A parte gli scherzi, mi piace raccontare di tre lavori in particolare: Barbiere, Lino Sabattini e O’mast.
Sono collegati tra di loro dalle caratteristiche dei loro personaggi, Autodidatti e lavoratori bambini, gente che ha dovuto attraversare momenti della vita duri e  drammatici, ma che grazie alla volontà e all’amore per la vita stessa e grazie anche alle speranze e ai sogni ce l’ha fatta.

Quali sono le difficoltà dei filmakers
In primis trovare un budget per poter organizzare un progetto. In Italia nessuno vuol mettere un soldo e comunque si cerca sempre di andare al risparmio. 
C’è poi il problema della visibilità. Non sono rari i casi in cui un buon progetto venga ignorato in Italia, ma all’estero abbia dei riscontri. O’Mast ne è un esempio.
L’Italia è l’Italia, un paese dove la gente si bea a guardare il figlio mediocre di  un grande attore che si affanna a seguire le orme del padre, permettendogli così una vita di ” notorietà” , commentando sempre quanto assomigli al padre, ma certo meno bravo , anche se sta migliorando…i figli, a volte anche i fratelli, fanno simpatia; così simpaticamente occupano il posto di un bravissimo attore/attrice privo/a di parentele note ai più. Si tende per cultura a dare meriti a chi ha come unico merito di portare un buon cognome. 
L’Italia poi non si vuole bene. Compriamo se possibile prodotti stranieri, guardiamo film stranieri molto più di quelli italiani. Un film italiano non riesce quasi mai a rientrare del suo costo solo con i biglietti venduti. Così il livello dell’industria si abbassa ed anche la qualità e ancora più persone non vanno più a vedere questo cinema mediocre che affanna sempre più.
In ogni caso è più facile che tu faccia un film in Italia per le persone che conosci e i rapporti che hai coltivato anziché per la tua bravura. 

Cosa significa essere indipendenti in questo settore?
La definizione di indipendente è applicabile solo al cinema americano, dove appunto è nato un sistema fuori dalle logiche strutturate delle Major cinematografiche e che ha dato vita ad un linguaggio, un vero e proprio genere. In Italia non ha nessun senso parlare di cinema indipendente non essendoci neanche quello dipendente… Si naviga a vista in un mare popolato da improvvisati e faccendieri  e qualche raro caso di alto professionismo e di arte. Si diventa indipendenti per poter girare i propri film, essendo per la maggior parte dei casi ignorati dalle case di produzione che o si dedicano alla pubblicità per scopi meramente economici , o Sono interessate a progetti con nomi già conosciuti,a basso rischio, come le commedie.

La camera inquadra ma chi è che trasmette un’emozione?
La verità. Anche quando un attore recita se è un bravo attore regala incredibili momenti di verità. Nei documentari la risposta suona più ovvia, ma in realtà le persone di fronte alla camera spesso tendono a mentire o comunque a proporre un’immagine falsata di loro stessi, ed è lì che serve il regista.