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Dopo la bella ed interessante esperienza dell’Accademia dell’artigianato della Pipa mi sembrava doveroso e soprattutto di grande utilità chiedere al M°Amorelli la disponibilità per una intervista per conoscerlo meglio, e chiedere a lui cosa vede in Italia nel settore del lento fumo.
Ringrazio ancora infinitivamente Salvatore per la pazienza per aver dedicato tempo e consigli a chi sta alle prime armi con questo mondo di artigianato, ed anche per questa intervista.

Salvatore Amorelli, in arte Totò!
La prima domanda che ti faccio è la più banale: come e perché hai iniziato a realizzare pipe? Quando hai capito che non era un hobby ma poteva essere per te una professione?

Correva l’anno 1978 mese di dicembre giorno 8, ero a Pisa, matricola alla facoltà di informatica compivo 19 anni. Fatale il regalo fattomi da una ragazza…  Bellissima!
Scatta la passione e, l’anno successivo, lasciai Pisa per fare ritorno a Caltanissetta e cominciare a “grattare” legni comuni dandogli l’improbabile aspetto di pipe!
Questo l’inizio, però ero già convinto che quella sarebbe diventata la mia attività

Cos’è una pipa artigianale veramente? Come si differenzia da quelle industriali che possono essere comunque di buona fattura?
Nella lavorazione industriale – in serie – l’operatore non può e non deve prestare attenzione alla venatura, porsi domande tipo “da dove viene la radica, quanto è stagionata”, ecc… e non partecipa all’ideazione del modello. Certo, svolge un lavoro manuale, sia in tornitura che in finitura e tutti gli operatori partecipano alla realizzazione del prodotto, con cura e perizia, affinchè non venga inficiato il lavoro degli altri, perseguendo gli interessi primari dell’ azienda che sono quelli della quantità.
Altra cosa sono le pipe artigianali fatte in laboratori con 2 -3 collaboratori, qui ad ogni fase di lavorazione viene dedicata una cura maniacale: lunga stagionatura della radica scelta pezzo per pezzo, “inseguimento” del punto nero anche a costo di cambiare forma e dimensione prescelta, frammentazione delle fasi di lavoro ripetute fino a quando l’artigiano non è convinto, cura nella lavorazione del bocchino giammai visto come appendice del fornello e costante ricerca di nuove forme e nuovi metodi di lavorazione.
In sostanza le pipe industriali possono essere anche di buona fattura, ma forse mancano di quel quid che colpisce invece in ogni pipe artigianale.

Adesso una domanda provocatoria: Dunhill e Peterson come le definiresti, ancora artigianali? Dove vengono realizzate veramente?
Insisto nel dire che i dipendenti degli “industriali” delle pipe sono bravi artigiani, però se dobbiamo essere obiettivi le menzionate aziende non possono essere considerate artigiane (non solo per il numero di personale impiegato e di fatturato annuo).
L’altra domanda: intanto bisogna verificare se le pipe che girano sono originali o meno, e se lo sono, sono fatte o sono soltanto “uscite” dalla sede della casa madre? Il dubbio viene fuori da diverse considerazioni: nel campo delle pipe industriali si è sempre assistito a forme di collaborazioni con altre fabbriche posizionate anche in paesi lontani dalla sede. Ciò soprattutto per la prima lavorazione, cioè la tornitura del fornello e del cannello. Ma non finisce qui perchè può anche darsi che in prossimità di questa azienda “terzista” vi sono persone che stuccano, carteggiano, ecc… Il viaggio di questi fornelli può continuare fino alla verniciatura, montaggio del bocchino e, perché no, alla marcatura, prima di essere distribuite dalla casa “produttrice”. Ora non sarà forse il caso di questi due marchi che comunque hanno il grande merito di essere presenti in ogni parte del mondo e di avere avvicinato all’uso una moltitudine di persone, con pianificazioni e strategie che nessun artigiano ha mai fatto, però che gusto c’è a fumare solo il nome senza sapere dove e chi ha fatto quella pipa? Insomma, per essere brevi, ho la sensazione che le pipe industriali difettano di identità.

amorelli_finituraSecondo me te sei, per molti aspetti, un “innovativo classico” cioè hai trovato delle soluzioni di lavorazioni della radica diverse da quelle conosciute ma al tempo stesso sei riuscito a mantenere una classicità che tanto è amata dai fumatori di pipa. Mi riferisco alle pipe lavorate a laser. Come sei arrivato a questo tipo di lavorazione?
L’artigiano è “libero” di creare forme a volte audaci oppure interpreta modelli classici che personalizza con un proprio stile per essere favorevolmente esitate dai fumatori. Nel nostro caso questa “libertà” la puoi vedere già dal 1985 in quelle elaborazioni particolari, prima di allora impensate, fatte sui bocchini e denominate busby, frac, nail, dandy, fish tail, ecc… lavorazioni che nel tempo sono diventate sempre più complicate e difficoltose per una semplice ragione, ci piace superare noi stessi! E pensa da quale tormento d’animo scaturiscono le tyche, le musa e le galatea, o no?
Sulle pipe lavorate a laser, diversi le chiamano rusticate, mentre a mio parere, è sempre stata una parola non appropriata. Io infatti le definisco “texturizzate” vista anche la modernità dei macchinari impiegati. Però attenzione, per fare una Penna di San Michele si utilizza il laser, l’idrogetto, la sabbiatrice, 5 passaggi di spazzole metalliche diverse, 4 passaggi di spazzole in tela… forse è la pipa più fatta a mano delle nostre dopo uno sforzo progettuale notevole.

Nel tuo laboratorio sei da solo a lavorare o hai qualche apprendista?
Sono stato da solo dal 1980 al 1983, poi nell’84 ho inserito un apprendista, ancora in forza, poi un altro, un altro ancora fino ad arrivare a 12 unità lavorative, ho impiegato anche dei minori c.d. a rischio dal 1992 al 1995 e mi sono occupato anche di articoli da regalo, oggetti per fumatori, e non, e di regalistica aziendale. Oggi siamo solo in 4 ma è tutta una questione “burocratica” su cui è meglio sorvolare. A tutti ho cercato di insegnare ciò che ho imparato: non è difficile fare una cosa una volta che hai affinato l’idea.

Parliamo di stagionatura, cosa a te tanto cara. Come dovrebbe essere fatta una buona stagionatura della radica?
Sì, mi è cara la stagionatura della radica, e la provenienza del ciocco. Fino a qualche tempo fa mi approvvigionavo in Calabria da Romeo, Albanese, Mittiga, Demetrio, Manganaro, Cresci a Sassetta (ne dimentico un paio), scegliendo uno per uno i pezzi che avrei portato via a fine giornata. Pochi o tanti non era importante, mi interessava solo la bellezza o la particolarità di ogni pezzo scelto fra diverse migliaia. Quello che notavo era però una risposta sempre imprecisa alla mia domanda: da dove viene il ciocco? Accorciando il discorso ho scoperto che tutti o quasi segavano il ciocco scavato in Sicilia!
Ho cominciato quindi a conoscere i cioccaioli che da generazioni fanno questo mestiere spiegandomi cose che mi portano a concludere che veramente uno sceglie una pipa perché è attratto da una serie di cose che vanno oltre il prezzo, la forma ecc…, essendovi fin dalla raccolta una profusione di emozioni che “animerà” dopo svariati anni il nostro amato oggetto.
Sulla stagionatura qualcuno liquida la faccenda, anche a mestiere, parlando di qualche mese, qualcun altro di un anno, oppure di due. Non sono affatto d’accordo: provate, se potete, a lavorare un abbozzo dopo due anni dalla bollitura, uno dopo 5, un altro dopo 10 e un altro ancora dopo 15. Vi accorgerete che quella più fresca è tenerissima alla carta, a noi sembra burro, e via via sempre più dura, tanto che dalle forature non viene fuori il truciolo, e le carte si consumano presto “bruciandosi”, insomma la radice diventa dura, molto dura, durissima, segno evidente della compatezza acquisita con il tempo dalle fibre.
Poi il gusto: attenzione, il gusto della fumata “sembrerà” buono anche nella pipa fresca, ma farà certamente più acquerugiola anche con un tabacco secco (non vorrei dilungarmi su questo aspetto chimico-fisico), si avvertirà di più il “gusto legno” che per quanto buono possa essere, mi pare di usare quella violenza che, vi assicuro, non si può ritrovare in una pipa fatta con radica adeguatamente stagionata e nel posto giusto.

amorelli_penna_san_micheleDel corso virtuale di Artigianato fatto su GustoTabacco che ne pensi? Secondo te è utile avvicinarsi anche per gioco in questo mondo?
Certo che è stato utile: ho conosciuto dei professionisti, dei timidi, altri cocciuti capatosta, però tutti animati dalla simpatica “competizione” per far vedere ciò di cui erano capaci, concedendosi, ovviamente, quei limiti di esperienza. Io mi sono rivisto a come ero tanti anni fa, spinto dalla curiosità e con la certezza di arrivare ad una cosa concreta. Confesso che non sono cambiato molto.

Ci sono in giro alcuni personaggi che regalano “consigli e giudizi” su come si fa una pipa senza averne mai fatta una… secondo te è possibile giudicare senza aver mai lavorato la radica? o meglio, il fatto di saper fumare la pipa è sufficiente per criticare il lavoro di altri?
Beh, mi sembra soprattutto di vedere pregiudizi, e non solo, ma è una cosa vecchia. Negli anni ’80 si parlava (e anche di me) di artigiani della domenica, e forse sarà stato anche questo che mi ha portato a “sfidare” costoro (mostrando nell’85 da Lorenzi e Colombi a Milano, D’Este a Mestre, Daneri a Genova… e poi Castellana a Firenze, Musicò a Roma, Riggio a Palermo, Privitera a Catania) pipe fatte in una maniera tale che nessuno credeva che fossi un autodidatta (Lorenzi mi aveva scambiato per il rappresentante, Castellana era convinto che fossi un esperto di elettronica). Poi la svolta decisiva con Mario Lubinski. Ricordo ancora le sue parole: “Di queste 80 pipe me ne piacciono si e no 12 o 15. Mi piace però la testa di questo ragazzo”.
Dunque taluni personaggi che dispensano consigli o, peggio, giudizi senza avere mai lavorato con le mani oppure perché ritengono di fumare bene la pipa, non possono trovare la mia considerazione.
Il lavoro non va mai criticato, ci sono tanti motivi che spingono ognuno di noi a fare qualcosa senza per questo pensare di farne profitto o un’attività.
Ritorno al concetto di persona necessariamente libera (free-head) perché possa leggersi in quello che fa (free-hand) qualcosa di sensato, piacevole o non.

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E’ noto che te hai fatto una pipa all’ex Presidente USA Bill Clinton e a Papa Giovanni Paolo II… come ci sei arrivato? Ci puoi raccontare come sono stati questi incontri?
Sarebbe scontato dire “emozionantissimi”, però due parole senza dilungarmi troppo. Per il Papa ho pensato ad un fornello “poggiato” su di un lungo cannello quasi fosse un pastorale. Le Sue parole in maggio 1993: “bella… bella!” La pipa mi fu commissionata dalla Diocesi di Caltanissetta nella persona di Mons.Garsia che volle ed ottenne la visita pastorale del Papa a Caltanissetta.
Molto più complessa fu l’esperienza con l’allora Presidente Bill Clinton nell’ottobre 1996. 1° perché non conoscevo nessuno se non un signore che stabilì un contatto con la NIAF. 2° perché quando a telefono proposi all’organizzazione una pipa, mi fu risposto che l’Amministrazione americana era contraria al fumo e poi il Presidente non era un fumatore. 3° avevo solo 40 giorni di tempo per pensare e realizzare… Non voglio aggiungere tante altre difficoltà, ma se volessi rifare ciò che ho fatto, non credo che sarebbe possibile che si verifichi la stessa riuscita. Davanti a John Travolta, Joe DiMaggio, Agnelli allora Ministro degli esteri, Frank Stella e altri, mentre lui stava con la bocca aperta, gli dissi: “I’m sorry Mr. President if does’nt music…” era un sassofono in radica con il bocchino terminale innestato nel chiver ed elementi in oro perfettamente funzionante… ovviamente come pipa. Fu un successo straordinario, pensa che l’indomani Clinton ne parlò con entusiasmo con il premier cinese Jang-Zemin, al punto che gli americani della Niaf, divenuti amici, mi chiesero di tenermi pronto per una missione in Cina.

Un saluto ai nostri lettori…
Ciao e grazie cari amici, continuiamo così, con la nostra passione e ben venga qualche problema o amarezza, tanto poi li superiamo di sicuro.
E se lo desiderate potremo riprovarci ancora.
Grazie anche a te Daniele che hai egregiamente amministrato l’iniziativa ideata.

 

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