Dagli zolfanelli ai familiari, tecnica, curiosità e collezione.

Secoli e secoli “illuminati” da minerva, cerini e svedesi.
E c’è anche un premio ad essi ispirato.

Flammifer, “che porta fiamma”, è l’origine latina della parola “fiammifero”. Uno strumento antico, dal quale l’uomo ha tratto enormi benefici, sia per la propria sopravvivenza, sia per la propria civilizzazione, che abbiamo conosciuto ed utilizzato fin dai primi anni della nostra vita, senza mai pensare, forse, quanta storia e tecnologia sono racchiuse in un piccolo fiammifero e soprattutto quanto benessere sprigiona in quell’attimo di vita che gli abbiamo concesso.
Dal latino al dizionario della lingua italiana, per “fiammifero” si intende un piccolo stelo di legno, o comunque di altro materiale combustibile, portante ad un’estremità una capocchia contenente sostanze che determinano l’innesco della combustione per mezzo dello sfregamento su una superficie ruvida o spalmata di sostanze speciali. E non solo. Esistono tre categorie di fiammiferi, classificabili in base alla natura dello stelo (di legno o di carta imbevuta di paraffina, come ad esempio i comuni cerini), in base alla natura della capocchia (quelli a capocchia fosforica, che si accendono sfregandoli su qualsiasi superficie ruvida, oppure fiammiferi di sicurezza, quelli che non contengono fosforo e si incendiano solamente se sfregati su una superficie fosforica), o ancora, identificabili come fiammiferi familiari (quelli che noi tutti conosciamo come svedesi, minerva, controvento e impermeabili).


La produzione in Italia

 

[filefield-onlyname-original]Prevalentemente, nel nostro Paese, si producono cerini, familiari, minerva e svedesi. Gli ultimi tre sono caratterizzati dallo stelo di legno e la materia prima per la produzione dello stelo è fornita da alberi come il pioppo. Dal tronco al bastoncino, il lavoro è lungo e paziente: arrivati alle dimensioni più piccole, gli steli vengono immersi in un bagno di bifosfato di ammonio, utile ad evitare che il legno rimanga incandescente dopo la combustione. Quindi, si passa all’essiccazione ad aria calda, per poi giungere alla vagliatrice, che elimina tutti i pezzi dalle dimensioni che non rispettano lo standard. Usciti da questa macchina, una serie di rulli provvede a raggrupparli, dopo di che una loro estremità viene introdotta nella paraffina, che assicura la continuità della fiamma della capocchia allo stelo, ed infine nella pasta occorrente per la formazione della capocchia che sarà in seguito essiccata. Per quanto riguarda la produzione dei familiari il procedimento è pressappoco uguale, con la sola differenza che le macchine, oltre a produrre steli con il tronco, producono anche la confezione nella quale saranno in seguito inseriti. Anche la preparazione dei cerini è simile, solo che per la produzione degli steli si utilizza la carta cosiddetta “kraft” in bobine.


I fiammiferi di oggi e quelli di ieri

 

[filefield-onlyname-original]Sono varie, quindi, le tipologie ancora oggi in commercio. Tra queste, se rimane incerta la data di origine del cerino, risale invece agli anni Venti l’inizio della produzione dei minerva, nome dato ai fiammiferi piatti, detti anche “a pettine”, di legno posti sotto una copertina di cartoncino e considerati di pregio e di ottima qualità. Sono invece ormai fuori produzione e prezioso oggetto di collezionismo, le bustine cerini prodotte fino agli anni Cinquanta e di particolare eleganza, gli ascendiscala, abbandonati dopo l’avvento dell’illuminazione elettrica, quelli in bustine “click” che si chiudevano automaticamente al momento dello sfregamento, ideati e brevettati negli anni Quaranta negli Stati Uniti dall’italianissimo signor Russo.
La storia di questi prodigiosi strumenti ha origini piuttosto remote: c’è da risalire, infatti, fino al periodo medievale, quando stecchini di legno imbevuti di zolfo si accendevano se strofinati sulla silice. E proprio gli zolfanelli sono da considerare una sorta di precursori degli attuali fiammiferi.

 

Un po’ di storia

 

[filefield-onlyname-original]Ma il primo, vero fiammifero nasce agli inizi dell’Ottocento, a Parigi, su preparazione di G. Chancel, che brevettò un’asticella di legno imbevuta di zolfo con la capocchia formata da una miscela di clorato di potassio e zucchero: il problema nasceva per l’accensione. Infatti, era necessario immergere la capocchia nell’acido solforico.
Nel 1827 John Walker intraprese la produzione e la vendita di fiammiferi chiamati congreves. Questi ultimi avevano la capocchia formata dal clorato di potassio, solfuro di antimonio e gomma, che si infiammavano se sfregati su carta vetrata. Per la produzione su scala mondiale bisognerà aspettare altri tre anni dalla scoperta di Walker.
Ma in quello stesso periodo, anche a Napoli iniziavano ad accendersi delle piccole luci grazie a Sansone Valobra che, pur piemontese, fabbricava proprio nella città partenopea, fiammiferi con capocchia a base fosforica, subito venduti alla corte dei Borboni per un ducato a confezione: ogni scatola ne conteneva venti pezzi. Qualche ano più tardi, per l’esattezza nel 1845, un commerciante di origine genovese, Francesco Lavaggi, impiantò a Trofarello, in provincia di Torino, uno stabilimento per la produzione dei, si può dire “neonati”, fiammiferi.
Questa invenzione della chimica moderna rivoluzionò l’universo accensorio, da prima come oggetto di lusso, poi, con l’insorgere di industrie produttrici, come oggetto di grande consumo. La sua immensa diffusione lo rese una sorta di media comunicazionale di grande impatto e il suo contenitore, sempre più riccamente illustrato, divenne il comunicatore popolare più efficace per veicolare immagini di re, di politici, militari, attori, monumenti, città, opere d’arte e di costume, vere e proprie testimonianze di cultura tipografica.


Fosforo bianco e fosforo rosso

 

[filefield-onlyname-original]L’invenzione, comunque, si sarebbe perfezionata nel tempo. Dal primo uso di fosforo bianco per le capocchie che però aveva l’inconveniente di essere tossico e pericoloso per gli operai delle fabbriche, facile agli incendi e alle esplosioni, si giunse finalmente, nel 1884, alla sostituzione di quello con il fosforo rosso.
La scoperta del fosforo rosso fu brevettata dagli svedesi Gustav Erk Pasch e Johan Edward Lundstrom, professore della Reale Accademia Svedese delle Scienze il primo e lungimirante industriale il secondo, che, agli inizi della seconda metà dell’Ottocento, unirono le loro forze e diedero origine ai fiammiferi di sicurezza, per l’appunto gli svedesi. Tuttavia, al contrario degli altri tipi di fiammiferi, gli svedesi sono gli unici a non possedere il fosforo rosso sulla capocchia; infatti la sostanza è spalmata sulla striscia ruvida dell’accensione, collocata lateralmente sulla scatolina.
Ma per l’inesorabile fine dell’impiego del fosforo bianco bisognava aspettare il 1906, quando la nascita del primo sistema industriale per la produzione del sesquisolfuro di fosforo e il brevetto di una formula di composizione di nuove “teste” accendibili ovunque della società inglese Albright & Wilson, avrebbero messo al bando la pericolosa sostanza.
Per l’Italia, va a Perugia l’esordio nella produzione dei fiammiferi igienici: tra il 1899 e il 1903 i fratelli Luigi e Attilio Purgotti ottennero ben sette brevetti di fabbricazione.

 

Fiammiferi da collezione

 

[filefield-onlyname-original]Una bella storia, quella dei fiammiferi, alla quale non mancano toni pittoreschi e curiosi legati, come già abbiamo accennato, alla passione per il collezionismo delle loro scatole, veri e propri album di immagini che, con il perfezionarsi dell’arte della litografia, si sbizzarrivano in vere e proprie serie, quelle umoristiche, quelle dei grandi musicisti, degli uomini politici, degli scienziati, degli sportivi. Tra le più ricercate dai collezionisti, la serie di confezioni ispirata alla storia di Giuseppe Garibaldi e realizzate tra il 1880 e il 1905. Caratteristiche per lo stile epico e per il gusto tutto ottocentesco dell’immagine, tra esse spiccano quelle formate da Michele Doyen, autore di vivide vignette goffrate, dai colori vivaci e dalle scene suggestive.

 

Il Premio “Zolfanello d’oro”

 

[filefield-onlyname-original]Ma oltre al collezionismo, i fiammiferi hanno “ispirato” anche l’istituzione, nel 1990, di un vero e proprio Premio. Ogni fine anno, la cittadina piemontese di Dogliani si “accende” attorno ad un’iniziativa del tutto particolare: la consegna del riconoscimento “Zolfanello d’oro” che premia ad ogni edizione un personaggio di spicco della cultura italiana ed internazionale che, come prevede lo statuto, “si è infiammato per un’idea sfavillante o per nobile causa”. Ultima in ordine di tempo a ricevere il singolare riconoscimento, ispirato alla figura del farmacista doglianese Domenico Ghigliano al quale viene attribuita l’invenzione, nel 1832, del fiammifero a sfregamento, è stata Carla Del Ponte, il magistrato svizzero procuratore generale del Tribunale Internazionale dell’Aja per i crimini nell’ex-Jugoslavia e in Ruanda.
E’ una vera sorpresa, conoscere quanti nobili e importanti bagagli, significati, valori si nascondono in questi piccoli, “poveri” strumenti di ogni giorno.

 

Fonte: TuttoTabacco