garibaldi

 

Il cielo sopra di noi è di un azzurro terso, senza una nuvola. La terra dietro queste rocce è invece brulla, cruda, come se nascondesse un segreto. Qualcosa deve accadere ma non sappiamo cosa. Un primo momento ho pensato che l’attesa si risolvesse in quel gesto, nell’estrarmi dall’astuccio di cuoio e nel ripormi tra le sue labbra. Sì, perché io sono un sigaro. Un sigaro Toscano, di quelli scuri, duri, bitorzoluti, amari. Poi ho capito che anch’io faccio parte dell’attesa, che sono il suo vassallo e che, più o meno volontariamente, contribuisco a darle una consistenza fisica.

Non ricordo cosa fossi prima, intendo prima di finire in quell’astuccio di cuoio. Alcuni dicono una foglia di tabacco o un insieme di foglie di tabacco, messe poi lì a fermentare, seccare, stagionare. La parte migliore a formare la fascia, il resto trinciato a costituire il ripieno. Ricordo però di essere stato a lungo in quell’astuccio insieme ad altri Toscani, a consumare con il nostro respiro forte il filo d’aria che in origine sapeva di pelle conciata ma che ora è soltanto impregnato del gusto amaro del tabacco. Ad uno ad uno se ne sono andati tutti, gli altri Toscani. Sono rimasto solo. Ho pensato: in attesa di una ricorrenza speciale. In attesa comunque di un preciso momento, come tutti. Io non mi intendo affatto di sentimenti, per forza, sono un sigaro. Ma credo che il sentimento dell’attesa sia quello che si addica di più al nostro essere sigari. Attendiamo di essere fumati e chi ci fuma attende qualcosa, magari anche soltanto di ridurci in cenere.

Ad ogni modo è andata così. Di colpo ho sentito scuotere l’astuccio di cuoio dove ero rinchiuso. La gravità ha invertito la sua forza e io e l’astuccio siamo volati verso l’alto, fuori dalla tasca di una giubba. Una giubba di panno ruvido, rosso, consumato dal sole e dalle piogge. Due dita tozze e forti hanno aperto l’astuccio, mi hanno estratto con delicatezza, hanno accarezzato le mie venature, tastato la mia compattezza, infine immobilizzato su una roccia. Altre dita hanno afferrato una lama che ha brillato nel sole. La lama si è avvicinata e con precisione ha fatto scorrere il suo filo prima sulla mia fascia, poi più a fondo sino ad attraversare la mia pancia bruna e a raggiungere con un leggero scricchiolio la roccia sottostante. Là, ero diviso in due. Credo che questo sdoppiamento sia un’esperienza pressoché inevitabile per un Toscano, ma vi assicuro che trovarsi in due identità diverse non è poi così drammatico. È un po’ come un essere umano quando indossa due maschere, una per sé, una per gli altri, oppure una per la moglie, una per l’amante. Si può essere uno con tante identità. Oppure, come nel mio caso, ossia nel caso di noi Toscani, si può mantenere una sola identità ed essere divisi in due.

Lasciamo perdere questo discorso sullo sdoppiamento dell’identità e sull’identità dello sdoppiamento. Lui mi passa questa benedetta lama sulla pancia con una determinatezza chirurgica e mi divide in due, – zac. Una metà torna nell’astuccio di cuoio, l’altra vola in alto trattenuta da due sole dita, sfiora i peli di una barba folta e giallastra, si infila tra due labbra. Stranissima sensazione, vi assicuro. Metà dentro e metà fuori, o meglio: una piccola parte dentro, al buio, a contatto con un saliva acidula che sa di fave masticate, e buona parte fuori, all’aria, al sole, alcuni peli duri dei baffi che ti solleticano la fascia esterna. E quella pressione – oh, leggera leggera – delle due labbra, sopra e sotto, che ti trattengono appena, in equilibrio, fulcro di una leva pronta a scattare ma che non scatterà mai.

Per un po’ me ne sono stato in quel modo, appeso alle due labbra, mentre le dita afferravano il manico della lama e la facevano sparire dentro un fodero scuro. All’improvviso sento un’ondata di caldo. Una luce abbagliante, rossastra, si avvicina con precauzione e si ferma sotto di me. Il calore è inimmaginabile, brucia la mia punta trasformandola in una piccola torcia. Dentro, dietro le labbra, una pompa aspira e fa correre l’aria tra i filamenti del trinciato che mi riempie la pancia. La fiamma si spegne. Ma ora ho una fiamma mia che subito svanisce e lascia al suo posto una brace rossa. Sprigiono un fumo denso. Due dita mi estraggono dalle labbra, esce dell’altro fumo, ritorno tra le labbra, mi sento umettare, risucchiare. Il fumo corre dentro di me, mi attraversa, esce di nuovo dalle labbra schiuse.

Si può pensare che per un sigaro sia tutto qui, che il suo scopo consista nel fare da connettore tra una brace e un fumo che circola, filtrando quel poco di umidità che si confonde con la saliva che di tanto in tanto bagna le labbra. C’è dell’altro, invece. C’è quello che mi piace chiamare il rapporto metafisico. Che è un rapporto intimo, intimissimo, con la mente del fumatore. Quello che avviene è un vero e proprio scambio tra i pensieri del fumatore e le forme dinamiche che assume il fumo. Sono per lo più ricordi antichi. O almeno, così sono nel mio caso. Ci sono foreste del Sud America, velieri, legni a vapore che arrancano attraverso i fiumi, poi il mare aperto, il sole, l’aria che sa di salsedine. Ma ci sono anche ricordi amari, di combattimenti, di fucilazioni, di corpi squartati, di sangue che scorre a fiumi, di pallottole che fischiano, ricordi di ferite e di dolori acuti, fisici e dell’anima. Tutti questi ricordi volteggiano sopra di noi, si uniscono in spirali, si torcono, si dividono, evaporano su nel cielo sino a confondersi con l’azzurro. E lì, nell’azzurro, c’è anche il ricordo di un amore antico, disperato, una felicità negata, diventata un dolore solo con tutto quel mondo che non funziona e che lui ha sempre cercato di far funzionare. Un mondo sbagliato. Mi sembra di sentire delle lacrime amare scendere a mescolarsi con l’umidità delle labbra. Lacrime invisibili perché asciutte, le lacrime che fanno più male. A questi pensieri, infatti, il ritmo di boccata prende vigore, la mia brace pulsa, il fumo mi attraversa veloce e fuoriesce dalle labbra avvolgendomi in nuvole e spire. Poi subentra il sentimento dell’attesa, le dita mi staccano dalle labbra, mi sollevano, gli occhi scrutano l’orizzonte, la fronte spaziosa cancella le rughe, l’espirazione si fa più profonda, il fumo esce dalle labbra con un soffio regolare. Il momento sta per arrivare, calcolato. Come è calcolata la durata della mia brace e del mio fumo, l’intensità del mio aroma.

Ritorno tra le labbra. Una parte di me incenerisce, cade, si disperde al suolo. Si fa polvere, si fa passato. Già, il tempo. Il tempo delle boccate, il tempo della mia trasformazione, il tempo dell’attesa. Io sono il tempo, ne sono la materializzazione. Finito me, finisce il tempo, finisce l’attesa. Intanto brucio. Brucio io e bruciano i pensieri che escono insieme al fumo. Bruciano i ricordi, con quel volto ovale di donna che io non conosco, con quei suoi grandi occhi neri che io non conosco. Bruciano i ricordi di altri volti, alcuni soltanto lontani, altri confinati nell’eternità. Bruciano parole, nomi di amici, discorsi infuocati, echi di battaglie, di fughe, di inseguimenti per mezzo mondo.

Le dita mi tolgono e mi rimettono tra le labbra con maggiore frequenza. Pochi minuti ancora e accadrà qualcosa, lo sento. Finirò di trasformarmi e di trasformare i pensieri che mi galoppano davanti sempre più incalzanti. Attendo. Attendiamo insieme, io e lui, il fumatore. Entrambi avvolti in una perplessità assoluta.

Lontano, oltre la collina, si sente qualche rumore metallico. La tensione si solidifica nella percezione di movimenti di altri esseri umani sotto il cielo sempre più azzurro.

garibaldi toscanoVicino a noi, a mezza voce, il suono di un richiamo familiare:

– Generale!

– Che c’è, Bixio?

– I soldati borbonici ci stanno attaccando.

– Lo so, Bixio. Il mio sigaro Toscano e io li stavamo aspettando.

 

 

© Romano A. Fiocchi

Il racconto è stato scritto appositamente per TuonoNews.it.