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Quel fumante caffelatte

Se chiudo gli occhi, mi sembra ancora di rivedere quella tazza bianca, e di gustarne addirittura il contenuto: quel caffellatte, quel primo caffellatte della mia ultima età bambina. E mi sembra di gustarlo come allora. Anzi, ne avverto fino in fondo tutto il sapore intenso.

La tazza bianca di fine porcellana mi veniva lasciata sempre lì, su quel piccolo tavolo di legno antico, nel locale di passaggio adiacente alla sacrestia. Tazza, piattino, cucchiaino d’argento, piccolo tovagliolo candido e ricamato con fiorellini rosa. Era il corredo della mia colazione.

Il caffellatte spandeva il suo odore dapper tutto; riempiva la piccola chiesa e, pian piano, raggiungeva l’altare sempre sul finire della celebrazione. Un odore stimolante e gradevole. Come buonissimo e fragrante era il biscotto marrone, allungato, con le uvette nell’impasto. Non vedevo l’ora di terminare il servizio di chierichetto per sedermi a tavola. Da dove arrivasse il vassoio, ancora oggi non l’ho capito. Le suore infatti agivano in incognito, usando una delle tre porte che immetteva dal monastero alla sacrestia. Mai una volta che le abbia sorprese mentre trasbordavano la colazione. La puntualità era ineccepibile. Allo scoccare delle sette e quarantacinque il mio angolo privato risultava già imbandito. Terminato l’impegno, tolto il mio semplice camice bianco e aiutato il sacerdote a togliere i suoi paramenti, mi sedevo dinanzi alla mia quotidiana “ricompensa” cui dedicavo l’energia di cui può essere capace solo un bambino che alzatosi presto, non aveva ancora fatto colazione. Ero sicuro che, mentre inzuppavo il biscotto nel caffellatte, le suorine mi stessero guardando e, magari, stessero anche ridendo dei baffoni che mi si stampigliavano oltre la bocca. Baffoni di caffé, che, poi, caffé non era. Si trattava infatti di orzo, buonissimo senz’altro, ma sempre orzo. D’altronde, il buon padre Vito, cappuccino del convento francescano situato nei pressi del cimitero, mi ricordava ogni volta che le suore non potevano somministrare caffé puro ad un bambino di 9-10 anni. Era la mia età.

Mi piaceva “servir messa”, soprattutto quella delle sette.

[filefield-onlyname-original]La chiesa e il convento delle Clarisse, a due passi dalla mia abitazione, erano collocati nel centro del paese eppure un poco isolati dal resto delle case. Secondo alcuni, quell’enorme costruzione secoli prima era stata una rocca dei Domini Contadini, forse addirittura la dimora di uno dei Brunforte. Poco distante dalla doppia scalinata che portava al luogo sacro, si stagliava un enorme pino centenario i cui rami possenti copr ivano gran parte della strada. Quel mio servizio mattutino un poco di sacrificio però lo richiedeva. Soprattutto d’inverno, quando il buio non era scomparso del tutto, e il freddo pungente, che sapeva di neve e di gelo, penetrava anche il più pesante dei cappotti. Sarebbe stato meglio rimanere a letto, a godersi il caldo delle grandi stufe di terracotta rossa.

Poco male, però. Il silenzio delle cose, le poche persone in strada, quel senso di pace e di letizia che si coglieva appena varcato il convento, il gesto sacro della messa celebrata da quel frate dalla pronunciata tonsura, eppoi, la ricompensa che misteriosamente appariva ogni giorno sulla tavola, mi ripagavano ampiamente delle piccole rinunce. Finito di mangiare, me ne andavo giù a precipizio, verso la scuola elementare. L’edificio sorgeva poco più sotto.

Nei mesi da dicembre a febbraio spesso la neve ammantava l’intero paese ed io usavo la cartella dei libri a mò di slitta. Arrivavo davanti all’uscio prima di qualsiasi altro, anche dei bidelli. Dovevo attendere ancora una decina di minuti perché la porta dell’istituto venisse aperta. Intanto, la mia immaginazione galoppava. Quelle suorine mi incuriosivano. Chissà cosa stavano facendo proprio in quell’istante? Forse, erano intente a filare – in estate, quando le finestre venivano spalancate mi giungeva il ritmo dei loro telai, tutun tutun -, oppure preparavano le ostie, o infornavano i biscotti, o erano intente nuovamente a pregare.

Già: a pregare. Avevano dedicato una vita alla Chiesa, un’intera esistenza a Dio.

[filefield-onlyname-original]Incredibile! “Che gusto ci trovavano?”, mi chiedevo. Ogni tanto mi tornava in mente un racconto ascoltato da mia madre. Molti anni prima la nonna aveva regalato alle Clarisse un enorme tavolo, da ben ventidue posti. Chissà perché, ma l’immagine di una allegra brigata di monache burlone sedute al nostro grande tavolo, mi faceva sempre sorridere. Intorno alla chiesa e al convento c’erano delle alte siepi: il luogo privilegiato dei miei giochi. Aspettavo con ansia i mesi di fine ottobre e novembre, quando la nebbia avvolgeva uomini e case. La nebbia è accogliente e protettrice. Allora, sull’imbrunire, armato di un pugnale di gomma, mi aggiravo in quello spazio, con il coltello serrato tra i denti, come avevo visto fare dai pellerossa in un film, spiando i passanti e nascondendomi alla loro vista. Poi, all’improvviso, il suono della campana mi distoglieva da quei giochi di guerra innocente. Era l’ora del vespro, per le suore o, addirittura, di compieta, l’ultima preghiera prima del sonno. Loro sarebbero andate a dormire; io dovevo ancora cenare eppoi avrei visto “Canzonissima”. Due concezioni del tempo e della vita iniziavano ad affrontarsi. Da un lato, c’era il ritmo ciclico delle cose: giorno, notte, pacatezza e silenzio, riflessione e preghiera, vita comunitaria in condivisione; dall’altro, un’iniziale spinta alla corsa, alla velocità, all’immagine televisiva, alla finzione, al rumore. A dieci anni avvertivo qualcosa senza troppa chiarezza. Poi, la vita ci viene addosso, rapidissima. La musica, gli amori, la politica, il lavoro. Smisi la “cotta” di chierichetto, mi allontanai da quella chiesina e dalla Chiesa.

Sicuro di poter far da me, solo da me.

Passarono così oltre vent ‘anni. Sino a quando la parabola dell’esistenza non tornò a pendere verso quel convento. Sconfitte e vittorie s’erano eguagliate. I giorni e gli anni filavano veloci, troppo veloci. Soprattutto, senza più un senso. I grandi perché dell’agire si erano affievoliti. Ed il cuore ferito cercava una risposta. Capita, allora, di ripercorrere strade già sperimentate. Tornai nella mia chiesina. Le Clarisse c’erano ancora. Non tutte, pur troppo. Cantavano ancora. E ancora indicavano una via.

Il buon padre Vito non l’ho più rivisto. Quel giorno sull’altare c’era un sacerdote anziano, del luogo. Chierichetti? Nessuno. Al mio arrivo la messa era già iniziata da un pezzo. Sedetti sotto l’immagine di don Bosco. Guardai il santo come lo guardavo da piccolo, mi parve con gli stessi occhi di allora. S’era ormai alla conclusione quando un profumo mi sorprese. Un profumo lontano, mai più avvertito: il caffellatte della mia fanciullezza. La mente fu un turbinio di ricordi e sensazioni. Sembrava che cronos, per una volta non fosse il divoratore e avesse invertito la marcia: il luogo era identico, le melodie quelle consuete, i gesti quelli di sempre. Corsi in sacrestia. Nel locale adiacente, sul piccolo tavolo antico – sempre quello – situato nello stesso posto di allora, fumante su un vassoio bianco arricchito da un candido tovagliolo ricamato di rosa, c’era una tazza di porcellana bianca. Il caffellatte, con accanto un biscotto marrone, allungato, impastato di uvette, mi aspettava. Come al tempo delle nebbie.