[filefield-onlyname-original]

 

“La mente è una malattia che disvela la salute”.

La mente di Giuseppe Genna è una palude che ribolle di vita, nell’acquitrinio melmoso dei sentimenti tutto il talento dello scrittore italiano erutta con scrupolosa potenza lasciando allibita qualsiasi capacità percettiva o critica.

 

In “Italia de profundis” non si entra nella nostra penisola, nelle sue problematiche sociali, o meglio, se viene fatto è marginalmente (per quanto il termine marginale possa essere adottato nel corpus letterario di questo sensazionale scrittore), in funzione del vero Profondo, di quello reale, costante, spiazzante. Quello dell’ “Uomo Giuseppe Genna”.

In un tentacolare gioco di rincorse, di cuniculi lasciati senza via di scampo il romanzo annienta la sua stessa entità trasformandosi in un viscerale monologo dell’inconscio. Un monologo corale dove “la parola sta cadendo, l’immagine sta cadendo”, ma per far spazio a cosa? A chi? Al vissuto. Al vivere. Non alla vita.

In questo libro c’è la celebrazione del vivere, dell’annaspare tra le pieghe peccaminose, ostentate con magistrale autoreferenzialità, dell’esistere. Di quel quotidiano che trascende il respiro, che forse lo abbatte, ma che in realtà è il motore principale della nostra foga di andare avanti, conscia o inconscia che sia.

Scegliere e sbagliare sono le chiavi disegnate dalla mano del bambino Genna, capace di grandi scarabocchi o sottili ideogrammi stilistici, per una narrazione che sembra diventare un diario lascivo alla portata della voyeuristica fame degli italiani, dei lettori che altro non aspettano che poter puntare un dito e alzare un esclamazione vessatoria e imperativa. Masochismo? Forse. Provocazione? Indubbiamente forse. Fatto sta che tutta l’autocelebrazione dei propri anni, delle malattie, dei nomi sembra qualcosa di familiare, di soggiacente alla bocca immobile dei nostri oscuri segreti.

La morte, la carne morente del tessuto epidermico di un’anima che sa giocare con le proprie sofferenze esorcizzandole nel racconto, nello splendido vestito della parola pronunciata per lacerare la lingua secca degli occhi che leggono, si trasforma nel susseguirsi delle pagine fino a raggiungere un parossismo azzeratore di giudizio.

Ogni frase entra dentro il corpo che ascolta le lettere e le mette in fila, entra per non lasciare più posto a un raggio di luce fittizio, falso, ipocrita. C’è bisogno di luce nera, c’è bisogno di onestà non indottrinata ma inoculata lentamente ad ogni respiro, che rende il “De profundis” un luogo capace di diventare rifugio sicuro, patibolo di paure, muro per inutili scuse e letto su cui giacere con se stessi nel silenzio del cuore.