“Il desiderio, è la cosa più importante che nasce misteriosamente, è il vago crescere di un turbamento, che viene dall’istinto, è il primo impulso per conoscere e capire, è la radice di una pianta delicata, che se sai coltivare, ti tiene in vita”.
Nove anni fa l’autore di queste parole, Giorgio Gaber, ci lasciava.
Era il 2003 e il signor G aveva solo 64anni. Chitarrista da quando aveva dieci anni, amico di Tenco e Jannacci da quando non aveva neppure la licenza media, Gaber ha scritto cose che vanno oltre la semplice canzone, fosse pure la cosiddetta e fastidiosamente sbandierata canzone d’autore. Testi difficilmente incasellabili, necessità sempre crescenti di raccontare le storie della vita scritte per tentar di dar luce alla vita, narrazioni e composizioni pensate per il palcoscenico inteso come luogo in cui non si può e non si deve mentire sul presente e sull’uomo: l’autore milanese dal 1970 (l’anno del Signor G) fino ai suoi ultimi giorni ha raccontato in venti album un modo unico di guardare la vita. Imprevedibile, politicamente libera, esistenzialmente provocante.
Nel 2001, Gaber entrava in studio con una selezione di canzoni scritte al solito con l’alter ego Sandro Luporini e produceva uno dei suoi dischi più importanti, La mia generazione ha perso. Disco notissimo per alcuni brani tra cui La canzone dell’appartenenza (“Sarei certo di cambiare la mia vita se potessi cominciare a dire noi”) e Il potere dei più buoni (“Penso alle nuove povertà, che danno molte visibilità, penso che è bello sentirsi buoni, usando i soldi degli italiani, è il potere dei più buoni, costruito sulle tragedie e sulle frustrazioni”).
Un disco che confermava libertà e dolore di questo autore “di sinistra ma non della sinistra”, un musicista che tutta la cultura dotta o di moda evitava perché fastidiosamente non collocabile, visto che non è ammodo dire in canzone che “sento che hai ragione se mi vieni a dire che l’uomo sta correndo e coi progressi della scienza ha già stravolto il mondo però non sa capire cosa c’è di vero nell’arco di una vita, tra la culla e il cimitero” (Il terzo millennio) e nella canzone successiva (La razza in estinzione) prendersela con la Chiesa, con gli esibizionismi sessuali, con gli intellettuali coglioni, con i compagni sfiatati. Disco di asprezze, di disillusioni culturali e politiche, di memorie storiche banalizzate dagli stereotipi (Destra-Sinistra), di rivoluzioni fallite, di amori ammosciati, di personalità onnivore e azzerate (L’obeso): disco sociale e politico potentissimo, come pochi altri nella carriera di Gaber. Disco di umanità senza paragoni.
Tra gli altri titoli, poi, ecco la canzone citata nell’introduzione, Il desiderio, una di quelle per cui la canzone italiana può andar fiera di se stessa. Con una linea melodicamente non prevedibile – ma è tratto di tutta la produzione del musicista milanese da Anche per oggi non si vola in poi, dove le influenze della canzone francese e di certa musica da scena scombinano l’ascolto della normale produzione cantautorale italiana – la canzone è un immergersi nel senso di ciò che è desiderio, dal particolare dell’amore uomo-donna all’universale del proprio esserci qui ed ora, sguardo poetico dentro le autentiche viscere dell’energia umana che parte dall’amore per ritrovarsi alle prese con le forze e i tempi dell’esistenza: “Il desiderio, è la cosa più importante, è un’attrazione un po’ incosciente, è l’affiorare di una strana voce, che all’improvviso ti seduce, è una tensione che non riesci a controllare, ti viene addosso non sai bene come e quando, e prima di capire sta già crescendo”.
Il nuovo anno, questo 2012 speranzoso, è arrivato a zittire le malelingue dell’anno precedente. E si poteva iniziare ricordando alcuni titoli mostruosi che in quest’anno celebrano il proprio anniversario, dall’esordio di Bob Dylan (1962) a Surfin Safari dei Beach Boys (1962), da Harvest di Neil Young (1972) a Made in Japan dei Deep Purple (1972) a Exile on Main Street degli Stones (1972). Ma tutto questo tripudio di bel rock oggi, forse, non regge il ricordo di Giorgio Gaber, che in un 1 gennaio ha tirato il sipario sul suo teatro canzone. Lasciando però il ricordo vivo e fisico di quelle parole con cui provare ad affrontare con umanità un anno che s’avvia: “Il desiderio è il vero stimolo interiore, è già un futuro che in silenzio stai sognando, è l’unico motore, che muove il mondo”.
Buon anno
Walter Gatti
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